ITALIA E FONDI EUROPEI: RESPONSABILITÀ PUBBLICHE E PRIVATE
Nella seconda parte di questo focus sui fondi europei abbiamo evidenziato come nella qualità e nell’esperienza delle amministrazioni pubbliche risieda uno dei fattori più menzionati nel dibattito sull’implementazione della programmazione europea nel territorio e, quindi, sul livello di spesa dei fondi europei disponibili. Già a fine del 2012 la Commissione europea – in un position paper relativo all’Accordo di Partenariato con l’Italia in contemporanea all’avvio dei negoziati sul medesimo – aveva evidenziato come riforme strutturali della PA fossero una delle chiavi per un miglior utilizzo dei fondi europei in arrivo. Non è solo una questione di livello di competenze dello staff – secondo le indagini di Forum PA solo 4 impiegati su 10 hanno una laurea -, ma anche di cultura dell’amministrazione. In Italia, infatti, è ancora profondamente radicata una logica del “finanziamento a pioggia” e delle “politiche dei bonus”, che difficilmente si legano alla menzionata impostazione di policy cycle alla base della programmazione europea. I primi approcci, ormai superati da tempo, seguono una distribuzione delle risorse molto arbitraria, in assenza di una lungimirante e organica visione dei reali bisogni di un territorio. Il pericolo di un approccio nazionale di questo tipo anche nella nuova programmazione è stato indirettamente confermato anche dal Ministero degli Affari europei che ha espressamente voluto ribadire, lo scorso novembre, come Next Generation EU non debba essere visto come “un gratta e vinci” da parte delle amministrazioni pubbliche.
Non bastassero i limiti storici della nostra PA, su cui molto resta da fare, gli stessi fondi europei devono sottostare a procedure molto dettagliate e non semplici da attuare. Il numero e la complessità delle norme che regolano i fondi SIE – circa una decina di regolamenti distinti nell’ultima programmazione – sono piuttosto elevati e i principi a cui si ispirano implicano degli impegni gravosi per le amministrazioni nazionali.
Per il ciclo 2014 – 2020 l’UE ha introdotto, oltre ai 4 principi storici (concentrazione, programmazione, partenariato, addizionalità), il principio di “condizionalità ex ante”, secondo cui ogni Stato membro garantisce di soddisfare dei “requisiti territoriali minimi” tali da favorire la riuscita dei programmi di policy.
Questo ha reso necessario un notevole lavoro di analisi e reporting da parte degli Stati, che si è riflesso in un ritardo nell’avvio della programmazione dei fondi SIE. Clamorosamente, l’Italia ha completato la definizione delle Autorità di Gestione dei Programmi 2014 – 2020 solo all’inizio del 2018, qualche mese prima dell’inizio dei negoziati a Bruxelles sul ciclo successivo (2021 – 2027). Quindi, anche la burocrazia dell’Unione comporta importanti difficoltà attuative da parte delle amministrazioni pubbliche nazionali, specie quando esse presentano debolezze strutturali e culturali. A poco è servito l’inserimento della c.d. “regola n+3”, per cui gli Stati membri hanno un ulteriore triennio successivo al 2020 per concludere i programmi avviati nel ciclo di policy appena terminato.
La burocrazia impatta, però, anche sui privati: i beneficiari ultimi delle politiche di sviluppo territoriale, infatti, sono spesso le imprese. Un ingente quantitativo di risorse è dedicato al sostegno delle attività e degli investimenti delle aziende sul territorio, così come al supporto ai cittadini in condizioni di difficoltà (è il caso del Fondo Sociale Europeo che investe miliardi di euro ogni anno per la formazione professionale e continua). Occorre passare, quindi, dalla dimensione “macro” dell’analisi a una prospettiva “micro”, che si concentri sulle dinamiche interne ai singoli progetti finanziati. Come detto, ogni programma approvato dalla Commissione europea deve garantire il raggiungimento di determinati impatti sul territorio, misurati sulla base di indicatori definiti ex ante. Ogni bando di finanziamento legato a fondi europei, quindi, ha l’obiettivo di contribuire al raggiungimento di questi indicatori di sviluppo territoriale e le imprese e i cittadini che intendono accedere ai fondi devono inserirsi in quest’ottica. I soggetti privati oltre ad essere beneficiari della programmazione europea e dei fondi, devono intendersi anche come attuatori responsabili della stessa. In questa logica risiede un’altra delle questioni che grava sull’utilizzo dei fondi europei; una problematica che però è più sfuggente alle numerose analisi fatte, in quanto si riscontra “nel piccolo” dei tantissimi progetti approvati negli ultimi 7 anni.
Gli indicatori stabiliti dal Programma Operativo Regionale del Veneto per il FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale), relativamente all’obiettivo specifico “Incremento delle attività di Innovazione delle imprese”.
Non si può dare per scontato l’allineamento alle logiche e agli obiettivi appena descritti da parte dei beneficiari privati di fondi europei. Ad esempio, le piccole e medie imprese sono solite percepire le opportunità offerte dai fondi europei nel novero degli incentivi tipici della “finanza agevolata”, cioè di quel gruppo di agevolazioni, anche di derivazione legislativa, atte a ridurre il costo di spese e investimenti (ad esempio i crediti d’imposta di cui periodicamente si tratta nei giornali a stampo economico) in maniera “automatica” e talvolta slegata dai risultati previsti e ottenuti. La programmazione europea, invece, e quindi tutti i bandi di finanziamento da essa derivanti, implica una verifica su quanto i soggetti beneficiari hanno ottenuto grazie al sostegno europeo e sul contributo che tali iniziative hanno dato ai menzionati indicatori di impatto. Un ruolo determinante nel settore privato, quindi, è ricoperto anche dai soggetti (professionisti, società di consulenza, associazioni di categoria) che presentano le opportunità alle imprese e le assistono nel loro ottenimento: l’attrattiva posta dalle cospicue percentuali di finanziamento non deve distogliere l’attenzione da un’analisi attenta su come e quanto gli investimenti del singolo soggetto siano in linea con i programmi dell’autorità di gestione che stanzia i fondi a essa affidati. E anche in caso di approvazione dei progetti di finanziamento, una gestione poco attenta all’ottenimento dei risultati richiesti può portare al rallentamento delle procedure di stanziamento già lontane dalla dinamicità del settore privato, alimentando quindi il fenomeno dello spreco delle risorse. Tanto che, a volte, la lentezza procedurale si traduce de facto in impossibilità di accesso.
È nei piccoli problemi, insomma, che si celano le motivazioni di quelli grandi: per le politiche pubbliche questa dinamica è riscontrabile spesso e volentieri. È il motivo per cui, ad esempio, le riforme basate sui c.d. “tagli lineari” della spesa sono spesso efficaci per contenere i costi pubblici ma molto meno per risolvere i problemi sottostanti. Per il “Recovery Fund” il pericolo è il medesimo: la discussione sui macro-capitoli di spesa e sulle strutture responsabili rischia di distogliere l’attenzione sulle reali questioni da risolvere per garantire un minor spreco di risorse. A maggior ragione se, come vedremo nella parte finale del nostro approfondimento, la lotta politica condiziona l’intera discussione.
A cura di Francesco Cafarelli