
Il motore industriale italiano rischia l’imballaggio
Pensate all’ultimo modello di smartphone leggero e sottile. Ma anche al volume della scatola che lo ricopre, il vassoio in plastica su cui sono disposti i vari pezzi e la pellicola plastificata e colorata con varie vernici. Questa composizione quasi artistica giustifica una tale mole di materia e di inquinamento?
Il packaging è la parte più inquinante e meno utile di ogni prodotto che compriamo. Gli oggetti monouso in plastica rappresentano il 70% dei rifiuti ritrovati sulle spiagge dell’Unione europea.
Anche per questo la Commissione europea ha proposto una direttiva – poi adottata nel 2019 da Parlamento europeo e Consiglio dell’UE – con cui vieta agli Stati membri di produrre e utilizzare plastica monouso ogni volta che siano disponibili alternative. Sono messi al bando: cotton fioc, posate, piatti, cannucce, bastoncini per palloncini, tazze, contenitori per alimenti e bevande in polistirolo e tutti i prodotti in plastica oxo-degradabile, cioè plastiche non biodegradabili al 100%, poiché contengono sostanze che le rendono rapidamente frammentabili in piccolissimi pezzi al sole e al calore. Queste rimangono nell’ambiente, senza degradarsi, ma in particelle molto piccole.
L’Italia ha deciso di adottare la direttiva Ue in modo differente rispetto agli altri Stati membri. Infatti il Consiglio dei ministri, il 5 agosto 2021, ha esentato dal divieto i rivestimenti in materiale plastico presenti in quantità inferiore al 10% del peso dell’articolo e gli articoli monouso in plastica compostabile prodotti con almeno il 40% di materia prima rinnovabile – 60% dal 1° gennaio 2024 -, qualora non vi siano alternative riutilizzabili ai prodotti di plastica monouso destinati a entrare in contatto con alimenti: forchette, coltelli, cucchiai, bacchette, piatti, cannucce che abbiano queste percentuali di materia rinnovabile solo in Italia potranno essere ancora utilizzate.
È plausibile che l’UE preveda una procedura di infrazione. Lo suggerisce una nota ufficiale del Commissario europeo Thierry Breton pochi giorni prima di Natale. Se così dovesse essere, il comparto della lavorazione della plastica rischierebbe un sensibile ridimensionamento. Questa lettura all’italiana del testo si spiega con la posizione predominante dell’industria italiana delle bioplastiche all’interno dell’Unione. L’Italia, infatti, è leader europea nella produzione degli imballaggi in plastica ottenuti da materie prime naturali o da materie prime di origine fossile ma derivanti da scarti di lavorazione del petrolio.
Il nostro Paese produce il 66% dei prodotti europei oxo-degradabili per imballaggi. A rendere un elemento biodegradabile non è tanto la materia prima di cui è costituito (che può anche essere di origine fossile) quanto la sua struttura chimica, poiché l’impatto ambientale di un determinato materiale è strettamente legato al tempo che impiega per biodegradarsi. Ci sono quindi due tipi di bioplastiche: quelle che derivano da una miscela formata da scarti di lavorazione del petrolio e da acido lattico o amido ottenuto da mais, frumento, patate, riso e quelle che derivano da microrganismi alimentati con zuccheri e lipidi.
Le prime vengono considerate bioplastiche nonostante siano composte in parte da prodotti di scarto del petrolio, ma questa parte di prodotto non è biodegradabile. L’Associazione Europea per le bioplastiche definisce bioplastica non solo ciò che è biodegradabile, ma anche ciò che deriva da fonte rinnovabile. Così vengono considerati bioplastiche anche il polietilene e il Pet (polietilentereftalato), che derivano in tutto o in parte dal bioetanolo, prodotto per fermentazione di alcune specie vegetali, ma anche da etilene, prodotto chimicamente dalla trasformazione del petrolio in carburanti e considerato rinnovabile poiché se non utilizzato, verrebbe comunque scaricato come rifiuto nell’ambiente.
Il loro ciclo di produzione genera meno gas serra e presenta un’impronta di carbonio più bassa rispetto alla plastica tradizionale derivante dal petrolio, ma sono plastiche che quasi sempre non si degradano per nulla. Eppure viene da chiedersi se non sia il caso di iniziare a produrre meno spazzatura, visto che non è sempre possibile smaltirla o esportarla.
La decarbonizzazione non passa solo dalla sostituzione di fonti energetiche, ma da ogni cm3 di anidride carbonica che non produciamo. Bisogna investire risorse in un design più etico che tenga conto dell’effettiva utilità di ciò che sta in una confezione e nei materiali utilizzati per produrla qualora necessaria.
Una direttiva maggiormente vincolante si impone anche alla luce del rifiuto, da qualche anno a questa parte, di ricevere portacontainers stracolmi di rifiuti dei paesi ricchi da parte di paesi più poveri utilizzati come discariche. Nel luglio 2019 l’Indonesia ha impedito l’attracco nei propri porti di navi contenenti rifiuti non biodegradabili provenienti da Francia e Hong Kong, mentre solo qualche mese prima le Filippine avevano rifiutato di scaricare una nave proveniente dal Canada con le stesse motivazioni. Ultimo in ordine cronologico ma non per gravità, il recente scandalo di Sfax, in Tunisia, nel cui porto sono stoccate, da mesi, tonnellate di rifiuti provenienti da aziende campane, e per cui si è aperta un’inchiesta che ha già fatto finire in manette il ministro dell’Ambiente tunisino e alti funzionari dello stesso Ministero.
Per salvaguardare la leadership italiana, evitare la perdita di produzione e la conseguente perdita di posti di lavoro si è fatta una scelta politica discutibile. La mancanza di visione a lungo termine dell’industria Italiana della plastica ancora una volta è stata salvata in corner da un recepimento della direttiva protezionistico.
Gli imprenditori del settore, invece di sfruttare questi anni e il loro vantaggio per interventi strutturali che avrebbero potuto risolvere alcune fragilità del sistema, hanno sperato nell’ennesima proroga o deroga. Si dovrebbe invece cercare di recuperare il tempo perduto attuando strategie che abbiano una visione a lungo termine che l’Unione europea ci chiede.
A cura di Domenico Rocco Megalizzi
