Europarola – Stato di diritto

Gen 17, 2024 | News

EuroParola è una rubrica a cura dei volontari e delle volontarie della Fondazione Antonio Megalizzi per spiegare in modo semplice le politiche europee a partire da una parola.

Spina dorsale di ogni moderna democrazia costituzionale, lo Stato di diritto garantisce che tutti i poteri pubblici agiscano sempre entro i limiti fissati dalla legge e sotto il controllo di giudici indipendenti, autonomi e imparziali. L’Unione europea considera talmente importante questo principio da averlo inserito tra i valori fondamentali enunciati dai trattati. Nonostante tutti gli Stati membri siano giuridicamente vincolati a rispettarlo, negli ultimi anni l’UE ha conosciuto una crisi dello Stato di diritto, posta in essere dal mancato rispetto di questo principio da parte dei governi di Ungheria e Polonia e dall’apparente impotenza delle istituzioni UE di fronte a queste violazioni.

Andiamo con ordine. Lo Stato di diritto (o, in inglese, rule of law) è un concetto giuridico di ampia portata e dalla definizione, in molti casi, sfuggente. Al cuore di questo principio vi sono la separazione e il bilanciamento dei poteri pubblici, con la supremazia del diritto come limite al loro esercizio. L’Unione europea, attraverso i documenti della Commissione e la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, ne ha elaborato un significato più esteso, intendendolo come principio intrinsecamente connesso al rispetto della democrazia e dei diritti fondamentali. Questi ultimi, in effetti, non possono esistere senza rispetto dello Stato di diritto e viceversa. Da una parte, infatti, i diritti fondamentali sono effettivi solo se possono essere fatti valere di fronte a un organo giurisdizionale; dall’altro, la democrazia è tutelata se la magistratura può garantire la libertà di espressione e di associazione e il rispetto delle norme che disciplinano il processo politico ed elettorale.

Stato di diritto, democrazia e diritti umani figurano tra i valori fondamentali dell’UE citati all’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea, assieme a dignità umana, libertà e uguaglianza. 

Questi principi ispirano anche la proiezione internazionale europea e il loro rispetto è prerequisito fondamentale per l’ingresso nell’Unione. Paradossalmente, però, l’UE appare maggiormente propensa a diffondere e promuovere i suoi valori al di fuori di essa piuttosto che ad assicurarne il rispetto entro i suoi confini. Infatti, mentre ai Paesi terzi viene chiesto di fare propri i principi democratici e i diritti fondamentali per poter ottenere aiuti dall’UE o per diventare candidati all’adesione (è la cosiddetta condizionalità), l’UE non riesce a sanzionare le violazioni di tali valori commesse dai suoi Stati membri.

A dire il vero, una procedura per affrontare gli Stati UE in violazione dello Stato di diritto ci sarebbe, è quella delineata dall’articolo 7 del Trattato, ma la sua attivazione è veramente difficile. Si tratta di un meccanismo a più fasi che prevede, nei casi più gravi, la possibilità di sospendere per lo Stato inadempiente il diritto di voto in seno al Consiglio dell’UE, l’istituzione composta dai rappresentanti del governo di ciascun Stato membro. A decidere sulla sospensione, però, è il Consiglio europeo, l’istituzione formata dai capi di Stato e di governo, che deve constatare all’unanimità l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro. Ciò significa che tutti gli Stati UE (ad eccezione di quello contro il quale viene puntato il dito) devono essere d’accordo. Gli autori dei trattati non avevano previsto che l’UE avrebbe dovuto fare i conti con due Stati contemporaneamente inadempienti, che in una potenziale votazione si possono proteggere a vicenda.

Infatti, questo è proprio quanto accaduto con Ungheria e Polonia, due Paesi UE che, nell’ultimo decennio, hanno registrato un preoccupante deterioramento della qualità della democrazia e uno sgretolamento dello Stato di diritto. In Ungheria, la maggioranza dei due terzi del Parlamento conquistata dal partito Fidesz alle elezioni del 2010 ha consentito al governo guidato da Viktor Orbán di ottenere l’approvazione di importanti cambiamenti istituzionali che hanno progressivamente eroso l’indipendenza della magistratura – mettendo fine alla separazione dei poteri – e il pluralismo media. La supermaggioranza ottenuta da Fidesz, infatti, ha permesso al partito di modificare massicciamente la costituzione ungherese, per esempio cambiando le regole di elezione dei giudici costituzionali e limitando la giurisdizione della Corte Costituzionale. Tra le altre misure che hanno minato la rule of law vi sono la presa del controllo della commissione elettorale – responsabile del monitoraggio delle elezioni e delle decisioni di ammissibilità sui referenda – da parte di Fidesz e il pensionamento anticipato dei giudici ungheresi, al fine di sostituirli con altri più fedeli ad Orbán. Infine, lo Stato di diritto è stato ulteriormente indebolito dalla corruzione endemica e dal sistema clientelare che Orbán ha costruito.

Allo stesso modo in Polonia, dal 2015, con l’ascesa al governo del partito populista conservatore Diritto e Giustizia (PiS) sono state adottate preoccupanti misure che aumentano il controllo politico da parte del governo sugli organi giurisdizionali, di fatto compromettendo lo Stato di diritto nel Paese. Anche nel caso polacco, infatti, sono state cambiate le regole di nomina dei giudici ordinari e costituzionali, affinché questi rispondano al partito, ed è stata compromessa l’indipendenza delle autorità di vigilanza dei media, assicurando al partito dominante un’informazione alle dipendenze del governo.

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Viktor ORBÁN (Primo ministro Ungheria), Mateusz MORAWIECKI (Primo ministro Polonia fino a dicembre 2023) durante il Consiglio europeo di giugno 2021.

Mentre con la recente vittoria della coalizione guidata dall’europeista Donald Tusk alle elezioni del 2023 il vento liberale sembra essere tornato a soffiare in Polonia, in Ungheria il potere di Orbán appare incontrastato sia dentro sia fuori il Paese. In particolare, l’Unione europea non è ancora riuscita ad imporre con successo il ripristino dello Stato di diritto in questi Paesi, nonostante la protezione della rule of law abbia negli ultimi anni guadagnato crescente importanza nell’agenda delle istituzioni UE.

Quest’ultime, infatti, data l’impossibilità di attivare la clausola prevista dai trattati, hanno messo a punto una serie di alternative all’articolo 7, arricchendo la cosiddetta rule of law toolbox, la cassetta degli attrezzi a disposizione dell’UE per fronteggiare il deterioramento dello Stato di diritto. Nonostante questo attivismo istituzionale, la maggior parte delle iniziative si sono rivelate un fallimento. Questo è dovuto prevalentemente al loro carattere comune: la ricerca del dialogo con Budapest e Varsavia. Rimandando nel tempo un’azione decisa nei confronti di violazioni sistemiche, l’UE ha finito per permettere il consolidamento di regimi illiberali in questi Paesi.

In questo contesto critico, l’introduzione del meccanismo di condizionalità sui fondi europei – contenuto nel Regolamento (UE) 2092/2020, il cosiddetto Regolamento Condizionalità – ha infuso nuove speranze. L’approvazione di questo regolamento è avvenuta, non senza difficoltà, in un momento cruciale, alla fine del 2020, contestualmente all’approvazione del Recovery Plan, il pacchetto di aiuti volti alla ripresa post pandemica degli Stati membri. Questo regolamento vincola l’erogazione dei fondi UE al rispetto dello Stato di diritto, permettendo di sospenderne l’erogazione in caso di violazioni gravi. 

Attraverso questo meccanismo, di fatto, l’UE rende utilizzabile anche nei confronti dei suoi Stati membri la condizionalità, il principio attraverso cui nel contesto della sua azione esterna gli aiuti (o la promessa di adesione all’UE) vengono vincolati al rispetto di alcune precondizioni.
La prima (e al momento unica) attivazione del meccanismo di condizionalità è avvenuta nei confronti dell’Ungheria. Dopo diversi richiami rivolti a Budapest e trascorso il tempo consentito per uniformarsi al rispetto dello Stato di diritto, il 15 dicembre 2022 il Consiglio ha deciso il blocco del 55% dei fondi di coesione destinati al Paese. Inoltre, l’Ungheria è ancora in attesa di ricevere i finanziamenti che le spetterebbero nell’ambito del Recovery Plan.

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Charles MICHEL (Presidente del Consiglio europeo) e Viktor ORBÁN (Primo Ministro, Ungheria) durante consiglio europeo 15 dicembre 2022.

Al momento, quindi, la Commissione sta giocando la carta finanziaria per esercitare pressione sul governo di Orbán affinché sia ripristinato il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. L’efficacia di questa leva, tuttavia, è diluita dal potere di veto che l’Ungheria detiene in ancora diversi ambiti di decisione in seno al Consiglio, specialmente in materia di bilancio e politica estera. Questo consente a Orbán di fare il braccio di ferro con la Commissione, minacciando il blocco di alcune importanti decisioni – come gli aiuti all’Ucraina – per ottenere vantaggi a suo favore. L’ultima mossa del leader ungherese è stato il silenzio assenso sull’apertura dei negoziati di adesione dell’Ucraina in cambio di un parziale scongelamento dei fondi destinati a Budapest che la Commissione europea stava trattenendo.

Seppure il governo ungherese abbia finora fatto soltanto alcuni timidi passi in avanti nella revoca delle riforme che hanno smantellato i sistemi di equilibrio tra i poteri tipici di una democrazia, la condizionalità rimane, ad oggi, la più potente arma a disposizione dell’UE per tentare di invertire la rotta illiberale dei suoi Stati membri o, quanto meno, per evitare che i fondi dell’UE finiscano nelle mani di governi che ne stanno deliberatamente violando i valori.

Vista la rilevanza dello Stato di diritto in quanto condizione vitale per la tutela della democrazia e dei diritti umani, istituzioni europee e Stati membri non dovrebbero essere disposti a transigere sul rispetto di questo principio, e agire coordinatamente e con decisione per garantire il pieno rispetto dei valori che contraddistinguono nel mondo l’Unione come uno spazio unico per il rispetto di diritti e libertà fondamentali.

A cura di Pietro Sala