Violenza sulle donne, se ne parla. Ma poi?
Il 25 novembre ricorre la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Con l’emergenza sanitaria Covid-19, e la convivenza forzata per il lockdown, è cresciuta la preoccupazione sociale per le donne costrette a stare tra le mura domestiche con partner violenti per molti mesi.
Secondo l’ultimo rapporto Eures, riportato da Ansa, nei primi dieci mesi del 2020 sono state 91 le donne vittime di omicidio, una ogni tre giorni. Il dato non si allontana troppo dalle 99 vittime dello stesso periodo nel 2019. A diminuire sono le vittime femminili della criminalità comune, mentre rimane stabile il numero dei femminicidi familiari, e tra questi invariato il numero di femminicidi di coppia (56 in entrambi i periodi).
E se non sembra esserci stato una crescita dei casi di violenza, è pur sempre un numero preoccupante. Inoltre, bisogna precisare che secondo i dati ISTAT le chiamate al numero antiviolenza 1522 sono aumentate, anche se le denunce per maltrattamenti, violenze sessuali e stalking, sono, invece, diminuite durante il lockdown, secondo le analisi del Ministero dell’Interno.
Questi dati, però, ci informano sulle richieste di aiuto e sulle denunce, non sulle effettive violenze.
E il problema si pone anche sul modo in cui le violenze vengono comunicate.
Parlare di violenza, e in particolare di violenza sulle donne, non è che non si faccia, anzi. Se ne parla e se ne parla molto. Di solito, quando accade l’ennesima tragedia, veniamo trascinati in un’orda di commenti come “Non è ammissibile”, “Che schifo!”, “Bisogna fare qualcosa”, “Povera ragazza”, “Ma ancora!?”.
Ci sentiamo indignati e indignate, speriamo che certi episodi non si verifichino più, e poi? «Poi girate pagina e finite le vostre uova di galline ruspanti. Perché tanto che si può fare? Si è sopraffatti» dice Boris nel film “Basta che funzioni” riferendosi all’orrore.
Certamente gli eventi risuonano più forte quando ne percepiamo la concretezza, poi però scivolano via dai nostri pensieri.
A questi commenti spesso se ne aggiungono altri paralleli che mirano a cercare giustificazioni e risolvere misteri; voci che si trasformano in Sherlock Holmes a caccia di cause e moventi: “Lo avrà provocato?” “Poteva evitare qualche atteggiamento?” “Ma com’era vestita?” “E tornava a casa da sola a quell’ora?” “Ah era pure ubriaca?” e l’immancabile “Però un po’ se l’è cercata”.
Qualcuno, giustamente, torna ad indignarsi anche di fronte a certe affermazioni, ma poi? Se siamo abbastanza fortunati/e da non essere coinvolti/e in prima persona in certe realtà, proseguiamo la nostra vita nella speranza che qualcosa cambi. Ma poi? Realizziamo che dai media alla politica, dal vecchio zio al pranzo di famiglia alla dirigente scolastica, persiste un certo tipo di linguaggio e di azioni che di fatto lasciano spazio all’interpretazione.
La domanda è se di fronte alla violenza, in questo caso alla violenza sulle donne, ci sia effettivamente qualcosa da interpretare.
A settembre 2019, Valigia Blu ha dedicato un’analisi approfondita sul caso di Elisa Pomarelli, la giovane 28enne di Piacenza uccisa da Massimo Sebastiani. Uno dei tanti avvenimenti che la maggior parte dei media ha raccontato lasciando emergere un giudizio di merito e indicando ai lettori e alle lettrici una certa interpretazione. Tramite l’uso di parole e attribuzioni sono state delineate delle attenuanti che trasformano quasi la vittima in colpevole e costruiscono una sorta di apologia dell’imputato.
Si innesca quello che viene chiamato victim blaming, il fenomeno che porta a ritenere la vittima responsabile totalmente o parzialmente del crimine o delle azioni subite, inducendo la stessa ad autocolpevolizzarsi. La convinzione di sentirsi responsabili o di meritarsi la violenza ricevuta può persino portare le vittime a non denunciare.
E sarà un articolo di un anno fa, ma le cose non sembrano essere molto cambiate: nel settembre 2020, sempre Valigia Blu si è dedicata ad un altro caso, ossia il modo in cui i media hanno raccontato la morte di Maria Paola Gaglione, speronata in moto dal fratello che non accettava la sua relazione con Ciro, fidanzato transessuale.
L’ennesimo episodio, perdipiù nel contesto familiare, di violenza sulle donne che non possono scegliere chi amare; un femminicidio che, in questo caso, ha anche a che fare con la transfobia. Questa violenza è stata presentata da molti media attraverso un racconto mediatico e giornalistico che ha usato espedienti linguistici per negare completamente l’identità di Ciro e non riconoscere la sua relazione con Maria Paola.
Il punto è che forse la narrativa non basta; forse nemmeno le storie e i numeri ci colpiscono più di tanto. Forse è necessario curare veramente gli aspetti che portano a certe tragedie, prima di arrivare a commemorarne le vittime.
Gli episodi sono moltissimi e continui, ed è spaventoso come questo linguaggio malsano si ripresenti ogni volta che queste tematiche vengono trattate sui social e non solo. Basti pensare a quanto è accaduto recentemente alla maestra di Torino, licenziata e finita alla gogna mediatica per essere vittima di un episodio di revenge porn. Si tratta della diffusione online di immagini o video privati a sfondo sessuale senza il consenso della persona ritratta a scopi vendicativi – ed è un reato -, a cui si aggiunge il cosiddetto slut-shaming, ossia il far sentire una donna inferiore e colpevole per il suo comportamento sessuale reale o presunto.
Revenge porn, slut-shaming, body-shaming (deridere qualcuno per il suo aspetto fisico) e victim blaming sono tutte facce di un’unica medaglia.
E quindi? Qual è il punto di questo articolo?
Il punto è che forse la narrativa non basta; forse nemmeno le storie e i numeri ci colpiscono più di tanto. Forse è necessario curare veramente gli aspetti che portano a certe tragedie, prima di arrivare a commemorarne le vittime.
Perché queste vicende ci mettono di fronte al vero tassello mancante: l’educazione. L’educazione all’empatia, l’educazione al rispetto, l’educazione all’uguaglianza, l’educazione alla convivenza civile. Perché crescere senza concepire la violenza come strumento di risoluzione e senza affidarsi ad un linguaggio che ne giustifichi l’utilizzo è forse un buon punto di partenza per sradicare la normalità di certi atti.
E vi assicuriamo che questa non è retorica.